Incontrarsi
Sono Alberta, ho 68 anni, e questa è la mia testimonianza sul Rolfing e sul rapporto con la mia rolfer, Miita Mazzali Fulgenzi. Ve la racconto in modo diretto, sull'onda emotiva di una esperienza per me molto importante. Quando cominciai il mio percorso avevo in testa una domanda: come sarà la persona a cui mi sarei affidata per molti mesi? La professionista in questione era Miita Mazzali, una delle prime rolfer in Italia, che mi aspettava nel suo studio a Roma, vicino a Villa Ada, quel parco in cui lo scrittore Niccolò Ammaniti aveva ambientato un suo esilarante romanzo. Il mio percorso iniziava quindi con una citazione letteraria e un sorriso, e questa mi metteva già di buon umore. Quando suonai il campanello e si aprì la porta, mi apparve una persona del tutto diversa dall’immagine che mi ero creato di lei: una donna che non era alta magra e severa, come mi aspettavo, ma piccola e rotonda come me. E, più o meno, della mia stessa età. La prima cosa che ho pensato è stata: Miita è una fata benevola.
“Quando suonai il campanello e si aprì la porta, mi apparve una persona del tutto diversa dall’immagine che mi ero creato di lei: una donna che non era alta magra e severa, come mi aspettavo, ma piccola e rotonda come me”
La prima seduta era partita con l’anamnesi (la raccolta dalla voce diretta del paziente di tutte quelle informazioni che possono aiutare il terapista a indirizzarsi verso una diagnosi corretta, ndr), che non nascondo, mi stava metteva un po’ di ansia. Il motivo per cui ero lì era che da un po’ di mesi facevo sempre più fatica a camminare, mi sembrava che le gambe fossero trattenute da lacci, e per di più annodati dietro le ginocchia. Ero appesantita e in più le analisi avevano diagnosticato che era in atto un processo di degenerazione artrosica delle ginocchia molto avanzato. Ginnastica, in vita mia, non ne avevo mai fatta, se non sporadicamente e con la sensazione di essere costretta: detestavo le palestre e la filosofia del fitness. Lavoravo per ore al computer e nel tempo libero amavo stare sdraiata a leggere un libro. L’unica attività fisica che mi piaceva fare era camminare, ma ora le mie gambe mi dicevano che non potevo più farlo. Ero appena andata in pensione, mi aspettava una vita nuova in un mondo nuovo, mi ero trasferita appositamente in campagna ma il mio corpo sembrava non volermi più seguire.
“ Il motivo per cui ero lì era che da un po’ di mesi facevo sempre più fatica a camminare, mi sembrava che le gambe fossero trattenute da lacci, e per di più annodati dietro le ginocchia”
Dopo il colloquio iniziale, con Miita siamo passati alla pratica: mi ha visto camminare e ha notato subito che avevo le spalle troppo rigide, ero sulla difensiva, col busto troppo in avanti e una traiettoria inquinata dal mio disturbo visivo da ambliopica. Dopo un po’ di percorsi mi sono sciolta e mi sono messa sul lettino. Le sue mani hanno cominciato a toccarmi partendo dai piedi. Miita mi ha spiegato che a ogni seduta si sarebbe lavorato su una parte del corpo, fino a completare le dieci tappe. Il suo è un massaggio forte, profondo e spesso anche doloroso, tanto che durante la manipolazione mi ha detto: “guardi che posso farle male…” Il suo lavoro è molto intenso, faticoso, eppure Miita riusciva sempre ad essere morbida e accogliente, con delle braccia quasi materne. Miita mi ha poi spiegato che ogni seduta sarebbe finita con un lavoro sulla testa e, quando lo ha praticato, mi sono sentita 'sciolta'. Il massaggio cranio-sacrale mi piace molto ma quello di Miita mi ha liberato da tutte le tensioni, commuovendomi. Mentre glielo stavo dicendo ho sentito due lacrime scorrere sulle guance. Mi sono vergognata un po’ e lei mi ha sorriso. Intanto abbiamo finito la prima seduta, e mi sono sentita come ubriaca ma al tempo stesso leggera. Mi è sembrato anche di tenermi meglio in piedi. Ci vediamo tra quindici giorni, mi ha detto Miita. La seconda seduta ha riprodotto la magia della prima. Sono entusiasta e grata, anche se il lavoro sui muscoli delle gambe si è rivelato per me molto doloroso.
“Intanto abbiamo finito la prima seduta, e mi sono sentita come ubriaca ma al tempo stesso leggera. Mi è sembrato anche di tenermi meglio in piedi”
Dopo la terza seduta, mi accorgo che la mia terapia va avanti con un po’ di lentezza, perché vivo a duecento chilometri di distanza, devo prendere auto e treno per arrivare a Roma, spesso rimando gli appuntamenti, costringendola a cambiare la sua agenda. Miita dice che devo mantenere la continuità, altrimenti il lavoro è inutile. So bene - ormai mi conosco – che sta riaffiorando la mia resistenza a muovermi, a 'sentire' il corpo. D'altra parte questa esperienza non è paragonabile a nessun’altra che ho vissuto, forse solo all’analisi psicoanalitica, che ho praticato per molti anni. Sento che si è instaurato il transfert con Miita, e il fatto che lei mi conosca, che sappia il mio segreto, mi mette sulla difensiva. Tuttavia, lo ammetto, a volte penso: non ci torno più. La mia 'fatina benevola', però, mi sgrida. E ha ragione.
“D'altra parte questa esperienza non è paragonabile a nessun’altra che ho vissuto, forse solo all’analisi psicoanalitica. che ho praticato per molti anni”
In una delle ultime sedute mi lascio definitivamente andare, piango a lungo. Racconto il mio dolore di bambina, il bisogno di madre. Miita mi dice di guardare la bambina che ero stata, di capire di che cosa ha bisogno. La devo riconoscere, abbracciare, amare. In quel dialogo tra noi sento che è una sofferenza che conosce bene, chissà se è arrivata a questo meraviglioso lavoro perché aveva bisogno di riconoscere anche lei la bambina che era stata. È un momento di empatia perfetta, che resterà per sempre nel mio cuore. Mi chiede che cosa mi fa sentire davvero “dentro” il mio corpo, e io rispondo stare nell’acqua, ma senza dover nuotare, senza dover per forza compiere una prestazione. E lei mi dice: stai nell’acqua, muoviti come vuoi, lentamente, fai le capriole e sorridi alla bambina che eri. È il tuo elemento.
“In una delle ultime sedute mi lascio definitivamente andare, piango a lungo. Racconto il mio dolore di bambina, il bisogno di madre. Miita mi dice di guardare la bambina che ero stata, di capire di che cosa ha bisogno”
Dopo la fine del percorso di dieci sedute, ci siamo viste altre volte, quando io potevo andare o quando lei aveva un’ora libera. Ora che avevo ricominciato a sgambettare, un po’ di mantenimento mi avrebbe fatto solo bene. Mi accorgo che avevo fatto la stessa cosa anche con la mia psicoanalista, come a prolungare un legame, un amore.
Avevo in mente di chiamare Miita per vederla quando ho saputo che ci aveva lasciati. Un tumore l’aveva portata via in poco tempo. Avrei voluto sentirmi ancora tra le sue braccia. Avrei voluto abbracciarla anch’io e cullarla come lei aveva fatto con me.

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